La Cavalleria nell'estremo oriente
Il Bushido e lo Yabusame

di Riccardo Garbini

Introduzione. La via del samurai in Giappone è un argomento ancora oggi dibattuto e motivo di profonda riflessione culturale, al di là degli effimeri successi mietuti da questo tema nel mondo della celluloide (i vari film del regista Akira Kurosawa, "Zatoichi", "L'ultimo samurai" con Tom Cruise, tanto per citare solo alcuni esempi degli ultimi anni); il Bushido, ossia "la via militare del cavaliere", rappresenta la codificazione di questa via. Ancora oggi abbiamo cerimonie di Yabusame "scuola del cavallo e della punta fischiante" o altrimenti chiamato Kyubajutsu, "metodo dell'arco a cavallo". Nella descrizione di tali cerimonie si ravviserà l'archetipo ispiratore della figura del cavaliere.

Pittura di Chikanobu Yôshû (1836-1912).


Il cavaliere anche in Giappone è l'esemplare di una società propriamente militare che si esauriva nella casta dei samurai. Rappresentativa, più di altre, anche della cultura nipponica, la casta dei samurai non era l'unica a possedere le armi: vi erano i nobili militari o daimyô e i nobili di corte o kuge, questi ultimi costituenti una classe superiore a tutte, pur essendo dei nobili degenerati, guerrieri solo di nome. Veniva poi la massa, la gente comune, costituita da artigiani, agricoltori e mercanti – la cui vita era interamente destinata all'esercizio delle arti di pace (Nitobe 1980: 141).

Significato del termine Bushido.
Bu è un ideogramma composto di due concetti: il primo carattere raffigura un'alabarda, che anticamente rappresentava l'idea della guerra; il secondo, sotteso al primo, indica il verbo tomaru, "fermare, soggiogare", raffigurando con un tratto orizzontale intersecante due linee verticali parallele di differente altezza, il moto ascensionale dalla base (con tratto orizzontale) che subisce un arresto.
Shi è un ideogramma molto semplice, costituito di tre pennellate: una croce sovrapposta su un tratto orizzontale (anche qui la base). La croce rappresenta il numero dieci, il tratto orizzontale il numero uno. I Cinesi dicevano che tra i numeri uno e dieci erano comprese tutte le cose e colui che le sapeva tutte era considerato un sapiente. Il termine dunque in Cinese sta a designare il dotto, il nobile letterato, al vertice della gerarchi sociale. I Giapponesi adottarono l'ideogramma con l'intento di designare il rango elevato, quello appunto dell'uomo d'arme, ch'essi ritenevano avesse le virtù più nobili.
Do è il famoso ideogramma suffisso di tutte le odierne arti "marziali", e sta a raffigurare una persona fornita di occhi che percorre una strada. Versione nipponica del cinese Tao, esso denota l'influsso delle dottrine zen.

Fonti del Bushido.
Le fonti più antiche della cavalleria si troviamo nel pensiero cinese di Confucio (VI sec. a.C.) e Mencio (IV sec. a.C.). La dottrina confuciana delle 5 relazioni morali tra (in ordine di importanza): padre e figlio, signore e sudditi, marito e moglie, fratello maggiore e minore, amici e amici, in Giappone trova un terreno già preparato e verrà a costituire l'intelaiatura del codice sociale del samurai, con l'unica differenza di anteporre gerarchicamente la seconda relazione alla prima dell'ordine cinese originario. "Il vero samurai chiama il dotto letterato: uno sciocco che odora di libri" (Nitobe 1980: 54).
Altro apporto importantissimo (testimoniato dall'ultimo ideogramma di Bushido) è quello della dottrina zen, penetrata e diffusasi in Giappone a partire dal XII secolo d.C. al seguito di missionari buddisti che avevano sviluppato le tecniche meditative di origine indiana (dhy?na in Sscr. > jh?na in Bengali > ch'an in Cinese).
La cornice indigena dove entrambi questi apporti, di origine straniera, confluirono era costituita dallo Shintoismo, che presentava l'esaltazione delle virtù della pietas filiale, della lealtà verso il sovrano, della venerazione degli antenati (cfr. Garbini 2007).

Fine del Bushido.
Il fine della via è l'esercizio delle virtù cavalleresche. La rettitudine (gi) viene così definita per i samurai: "capacità di assumere decisioni", e analogicamente "la struttura delle ossa che danno solidità e posizione eretta al corpo; […] senza la rettitudine anche l'ingegno e il sapere non riescono a fare di una forma umana un Samurai." (Nitobe 1980: 59). Già una delle cinque grandi virtù confuciane, è da Mencio definita la via dell'uomo.
Il "principio di rettitudine" (giri) è comunemente definito il senso del dovere che accompagna ogni essere umano. L'uomo retto (gishi) veniva in tal modo considerato superiore a qualsiasi dotto o genio, come ancora oggi la venerazione tributata nel Sengakuji ai "47 fedeli" (gishi, volgarmente ricordati anche come ronin) sta a testimoniare.

Sengakuji: Sepolcro dei "47 fedeli"


La benevolenza (jin) è considerata la pratica del tao, inteso come disciplina di vita, che permette all'uomo di collegarsi ai principi supremi. Contraltare della precedente virtù, ne costituisce un correttivo contro gli eccessi: "la rettitudine spinta all'eccesso conduce all'inflessibilità, la benevolenza sviluppata oltremisura cade nella debolezza" (Nitobe 1980: 72). L'educazione alla sensibilità determina un riguardo ispirato al rispetto verso le sofferenze altrui. La modestia e il desiderio di far cosa grata agli altri, guidati dal rispetto per i loro sentimenti, costituiscono le radici della cortesia.
La cortesia o pietas (rei), questo "germe del(l'azione del) cielo sul trimundio" (ossia la potenzialità dell'azione ordinatrice di impronta celeste nel triplice ambito della manifestazione; vedi Garbini 2007; venne considerata da Confucio virtù fondamentale. In Giappone, importata nell'epoca medievale, come parametro delle relazioni sociali, raggiunse raffinatezze così delicate da poter essere difficilmente concepibile al giorno d'oggi. Le due grandi scuole nipponiche della cortesia furono quella di Ise, nell'area di Kyoto, e quella di Ogasawara, nell'area di Tokyo/Kamakura. (Figura accanto – Ideogramma "Rei".)

 

Cerimonia Ogasawara a Kamakura.


È nella pratica di questa virtù che si vengono sviluppando gli aspetti caratteriali della fermezza, gravità, tranquillità, che servono per affrontare a pie' fermo qualsiasi circostanza od evento della vita.
La sincerità (shin) è di basilare importanza già nel mondo cinese. In Giappone essa diviene garanzia di verità: la parola di samurai (bushi no ichigon) rappresentava certezza autorevole, similmente alla Ritterwort del mondo germanico (Nitobe 1980: 86). Contrappeso alla qualità precedente, ne rappresenta la sua indivisibile compagna, nonché il suo correttivo sociale, favorendo la lealtà (chu), raffigurata con gli ideogrammi "cuore" e "interno" sovrapposti, indica l'integrità della persona, condizione psicologicamente importante per un guerriero come necessario a chiamare a raccolta tutta la sua energia.

Metodo del Bushido
L'educazione del giovane samurai era divisa in due parti, prima e dopo i 15 anni (Nitobe 1980: 107):
a) il "piccolo insegnamento", che iniziava a 5 anni (quando si iniziavano ad indossare i distintivi della casata e si sostituiva il pugnale giocattolo portato alla cintola del bambino con uno vero) contemplava l'istruzione primaria, regole di comportamento verso i genitori ed i maestri, rei, conversazione e musica;
b) il "grande insegnamento", basato sull'omonima opera confuciana (Ta Hsüeh, in giapponese Daigaku), basato sull'autodisciplina e sulla sincerità; era inoltre richiesta la conoscenza di altre opere confuciane più i songo ossia i trattati cinesi sull'arte della guerra, nonché la calligrafia, la letteratura, l'equitazione, il tiro con l'arco e altre innumerevoli arti marziali.
Tutto ciò era propedeutico a formare il carattere del giovane guerriero e la pratica del Bushido, favorendo lo sviluppo della saggezza (chi), benevolenza (jin) e coraggio (yu).
La matematica era considerata indegna di un samurai, così come la finanza fino al semplice maneggio di denaro, occupazioni che si lasciava ad altre persone.
In conclusione, il metodo formativo adottato per preparare alla pratica del Bushido coniugava conoscenze teoriche ed applicazioni pratiche, in memoria dell'antico detto confuciano secondo il quale "il sapere senza pensiero è attività vana. Il pensiero senza sapere è pericoloso."; lo stesso concetto lo ritroviamo anche nella lettera che il monaco zen Takuan scrive ad un samurai: "tecnica e principi sono come le ruote di un carro". (Takuan s.d.: 16).
Il contatto con il Buddismo, soprattutto con le scuole zen, comportò un afflusso di tecniche miranti all'autocontrollo (Deshimaru 1995), che è risultato elemento imprescindibile – anche se a volte portato fino all'eccesso – come testimoniato dalle seguenti parole: "Esibire con abbondanza di espressioni i sentimenti e i pensieri più intimi – soprattutto se rientrino nel dominio del religioso – è per noi emblematico del fatto che quei sentimenti e quei pensieri non siano né molto profondi né molto sinceri. Dice un nostro proverbio popolare: - è solo una melagrana colui che quando apre la bocca mostra tutto il contenuto del suo cuore." (Nitobe 1980: 115). Un tale atteggiamento appare essere la manifestazione formale e concretizzata dell'assunto buddista "l'immobile saggezza di tutti i Buddha" simboleggiata nella divinità Fudo Myoo. Nelle parole di Takuan Soho, un maestro zen del XVII secolo: "Egli rappresenta la mente immobile ed il corpo che non vacilla. Osservare qualcosa e non fermare la mente è detto: immobilità. Ciò perché quando la mente si sofferma, l'animo si riempie di sentimenti e si creano mille movimenti al suo interno"(Takuan s.d.: 12).

La divinità tiene la spada nella mano destra ed una corda nella sinistra, mostra i denti e i suoi occhi lampeggiano di rabbia, la sua posa è risoluta, pronta a sconfiggere i nemici che potrebbero ostacolare il Dharma. Una tale divinità è molto importante anche per l'altro grande filone buddista che si manifestò in Giappone, la scuola Shingon (Coquet 1986: 182). Nella figura accanto: statua di Fudo Myoo

Alcune figure insigni di samurai.
La storia nipponica è ricca di esempi ed aneddoti, modellati sulle virtù cavalleresche sopra ricordate, che costellano la vita di personaggi illustri del passato. Qui ne saranno presi ad esempio alcuni.
Minamoto no Yoshitsune (1159-1189). Nacque da Gozen, concubina di Minamoto Yoshitomo (capoclan Minamoto, che venne ucciso dai Taira) e riuscì ad essere salvato dalla madre, assieme ai due fratelli più grandi (Yoritomo e Noriyori), dalla vendetta dei Taira: i bambini vennero rinchiusi in un convento con l'obbligo di diventare monaci. Ciò sarà in seguito causa della completa distruzione dei Taira. I tre fratelli, infatti, una volta cresciuti, fuggiranno dal convento e inizieranno la celebre guerra Gempei, che si conluderà con la battaglia di Dan no Ura (1185), che sancì per l'appunto la sconfitta ed estinzione della casata dei Taira.
La tradizione narra che Yoshitsune da ragazzo – mentre si trovava nel convento – veniva spinto di notte all'aperto da una forza misteriosa che lo portava ad allenarsi con un bastone nell'arte della spada, combattendo contro gli alberi o le rocce; finché una notte giunse un tengu (essere mitologico dal lungo naso: una specie di centauro) che completò la sua istruzione guerriera. Fuggito che fu dal convento, iniziò il ciclo celebre delle sue imprese eroiche. Un giorno sul ponte Gojo incontrò il suo futuro inseparabile amico, Benkei, un monaco gigantesco, imbattibile nella lotta, rissoso ed arrogante. Principale artefice della disfatta dei Taira, venne però in seguito perseguitato dal fratello Yoritomo, divenuto nel frattempo un potente shogun. Datosi alla fuga, alla fine si uccise con i suoi familiari e il fido Benkei. Secondo un'altra tradizione egli in realtà si sarebbe rifugiato tra gli Ainu, ove divenne una specie di kami, ed in seguito tra i Mongoli, dove sarebbe divenuto niente popò di meno che Gengis Khan (Mergé 1961: 76-79; Storry 1978: 38-39).

Nel XVI secolo dominano la scena tre grandi condottieri, i quali, con le loro gesta, diverranno simboli di altrettante modalità guerresche, fornendo nel contempo un panorama delle possibilità guerriere nipponiche culturalmente esaustivo: Oda Nobunaga (1534-1582), che combatté l'influsso buddista ricorrendo anche all'eccidio dei monaci (guerrieri), iroso, violento; egli simboleggia la marzialità pura; Toyotomi Hideyoshi (1537-1598), abile, scaltro, richiama la mercurialità di un Odisseo dal "multiforme ingegno", "dai molti espedienti, dalle molte astuzie" (Del Bello 2007: 6); Tokugawa Ieyasu (1542-1616), che trasferì la capitale ad Edo (l'attuale Tokyo) aprendo nel contempo contatti con l'estero, saggio, paziente, qualità del vero 'sovrano', di colui che riesce a vedere dall'alto le piccolezze umane, ossia Giove.
Queste tre specifiche valenze guerriere sono tradizionalmente messe in relazione tra di loro e raffigurate nella pittura giapponese mediante una scena di preparazione del dolce di riso, che simbolicamente può richiamare il Principio unico cui tutto si raccorda e che è il "vero nutrimento" dell'uomo.
In questa scena (Nitobe 1980: 96), Nobunaga è ritratto macinare il riso, Hideyoshi preparare la pasta, Ieyasu mangiare il dolce, ad intendere la capacità ad un tempo dirompente e fecondante dell'impeto marziale (che rompe i singoli grani di riso), quella intelligente ed abile della mobilità mercuriale (che 'tratta' la materia/pasta di riso) ed infine la divorante e inesorabile della supremazia gioviana1 (che degusta il dolce di riso).

Arceria cavalleresca (Kisha no hôsha).
L'uso dell'arco e delle altre armi fu limitato alla fanteria fino al IV sec. d. C., quando iniziarono a comparire sui campi di battaglia soldati a cavallo, i cavalieri (kisha). Nel X secolo si svolgevano oramai normalmente duelli a cavallo.
Esempio di impresa eroica a cavallo, si ricorda durante la Guerra Genpei (1180-1185) un episodio occorso nella battaglia di Yashima, quando le truppe del clan Heike imbarcatesi per sfuggire alle soverchianti schiere del clan Genji, sfidarono l'esercito a colpire un ventaglio aperto tenuto sull'imbarcazione che il mare rendeva inavvicinabile entro 200m.
Uno dei samurai inseguitori, Nasu Yoichi, accettò la sfida e guidato il cavallo dentro il mare riuscì a colpire nettamente il ventaglio con una freccia. L'impresa lo rese un eroe e tutt'oggi è ricordata con rispetto e ammirazione.

Nasu Yoichi che colpisce il ventaglio, pittura di Chikanobu Yôshû (1836-1912).


Nel periodo Kamakura (1192–1334), l'arceria a cavallo era diventata disciplina usuale del curriculum militare per qualsiasi samurai.
Con l'arrivo dei Portoghesi alla metà del XVI secolo, le armi da fuoco fanno la loro devastante e sconvolgente comparsa in Giappone, riducendo l'importanza strategica della cavalleria. Nella battaglia di Nagashino nel 1575, un gruppo di fucilieri agli ordini di Oda Nobunaga e dei Tokugawa sterminò la cavalleria del clan Takeda.
Un ripristino della sua importanza la cavalleria lo ebbe nel periodo Edo (1600–1867) grazie a Ogasawara Heibei Tsuneharu (1666–1747) che militò sotto lo shogun Tokugawa Yoshimune (1684–1751). Nel periodo pacifico che seguì, l'arceria a cavallo, con tutte le altre arti guerriere, divenne importante per l'ascenso personale.
Secondo l'insegnamento tradizionale dell'arceria a cavallo (Kisha no hô o Kyûbadô), vi sono tre tecniche di tiro con l'arco a cavallo (Kisha no mitsumono): 1) Kasagake 2) Inu ô mono e 3) Yabusame.

Per quanto riguarda 1) Kasagake, o "tiro al cappello", viene di solito effettuato ponendo un grande bersaglio (Ômato) tra due cortine di bambù (take yarai) perpendicolari alla e lontano dalla traiettoria del cavaliere. Ciò rende il tiro difficile, in quanto il cavaliere ha a sua disposizione solo qualche frazione di secondo per poter scoccare la freccia trovandosi perpendicolarmente al bersaglio. Questa difficoltà riproduce esattamente la difficoltà per l'arciere in battaglia di centrare il piccolo punto del guerriero avversario non sufficientemente difeso dall'armatura (Ôyoroi), la parte superiore del viso. Altre varietà di questo tiro contemplano bersagli di varia grandezza, e forma, disposti differentemente sul terreno a riprodurre momenti casuali della battaglia, in vista della quale questo tecnica veniva sempre esercitata.
Secondo la leggenda questo tiro sarebbe nato da una battuta di caccia capitanata da Yoritomo, allorché questi, visto un copricapo (ayahigasa), sfuggito al proprietario, che vagava per i campi spinto dalle raffiche di vento, dette ordine di colpirlo.
Riguardo al Inu ô mono, o "tiro al cane", sembra derivasse dal tiro alla mucca (Ushi ô mono); non si effettua più nelle stesse forme originarie, che prevedevano la morte dell'animale. Esso anticamente veniva praticato per allenarsi alla guerra con un bersaglio, il cane, estremamente mobile, che costringeva l'arciere a tirare in qualsiasi posizione senza mai poter tenere le redini della sua cavalcatura. Con l'influsso del Buddhismo si ebbero degli adattamenti – nella forma delle punte delle frecce – atti a non uccidere l'animale, quanto a tramortirlo.

Lo Yabusame.
Con il termine Yabusame, letteralmente "scuola del cavallo e della punta fischiante", si intende l'uso sacro e cerimoniale (shiki) del tiro con l'arco a cavallo altrimenti chiamato genericamente Kyubajutsu, "metodo dell'arco a cavallo".
Esso intendeva fungere da divertimento per i molteplici dei che vegliavano sopra la sicurezza e il benessere del Giappone.
L'arciere (ite) galoppa lungo un tracciato rettilineo di 255 metri; egli deve scoccare tre frecce in successione a tre bersagli disposti lungo il tracciato, tenendo il cavallo – al galoppo – con le sole gambe. Lo scocco delle frecce (hanare) è accompagnato dal grido (kiai) "in yo" (tenebra-luce).
Le punte delle tre frecce, che ogni arciere scaglia, sono arrotondate e rinforzate (menashikabura) per poter ottenere uno schiocco caratteristico quando colpisce il bersaglio (una tavoletta di legno).

frecce (menashikabura)

L'arciere è abbigliato secondo il costume tradizionale: copricapo dalla foggia rustica dalle falde laterali rialzate (ayahigasa), oppure a punta con larghe tese (onigasa);

copricapo ayahigasa

copricapo onigasa

una speciale protezione (igote), di stoffa o pelle, indossata dalla spalla alla mano sinistra (quella che impugna l'arco) ad impedire che l'ampia sopravveste dalle larghe maniche interferisca con il tiro; una corta spada portata anteriormente (maezashi) coperta da uno speciale fodero di pelliccia (shirigai); paracolpi sulle gambe (mukabaki), fatti di stoffa o pelle di cervo; una speciale faretra (ebira); calzature particolari (igutsu) che, adattandosi alle grandi staffe, permettano al cavaliere di appoggiarsi interamente ad esse con il cavallo al galoppo, per poter scagliare la freccia.

arciere in abito tradizionale


La cerimonia si avvale anche di tutta una serie di assistenti (shoyaku), il più rappresentativo di tutti è senz'altro il "controllore del bersaglio" (matometsuke), con il classico copricapo a punta (eboshi) dei sacerdoti shinto ed un costume di foggia medievale (Hitatare e Ôsode) dalle ampie maniche, con una spada al fianco e calzari in cuoio dalla punta ricurva (Hanatakagutsu).

matometsuke (controllore del bersaglio) accompagnato dai yatori (assistenti che riprendono le frecce)

Altre figure di rilievo sono i portatori delle offerte agli dei (Heikata), assistenti che riprendono le frecce scagliate (Yatori) - di solito ragazzi molto giovani , "portatori del ventaglio" (Ôgigata), addetti al servizio d'ordine.

addetti al servizio d'ordine

Le scuole.
Due sono le scuole che ancora oggi praticano lo yabusame: 1) la scuola Ogasawara; 2) la scuola Takeda.

Il 31° caposcuola, Ogasawara Kiyotada.

1) Ogasawara - venne fondata da Ogasawara Nagakiyo, il I caposcuola, allora ventiseienne, dietro esplicita richiesta dello shogun Minamoto Yoritomo (1147–1199). Scuola prevalentemente rituale, basata sul rituale (shiki), essa ha origine dal clan Seiwa Genji e ha incluso anche le arti del kishidô nel novero delle tecniche tramandate al suo interno. Il nome Ogasawara fu il soprannome che l'imperatore Takakura dette a Nagakiyo. L'attuale caposcuola (XXXI) Ogasawara Kiyotada ha portato per la prima volta lo Yabusame all'estero, alle Hawaii, in Francia e Gran Bretagna (Ogasawara ryu 2003).

2) Takeda - iniziò grazie a Minamoto Yoshiari nel IX sec. d.C. dietro richiesta dell'imperatore Uda (889-897). Scuola di impronta prevalentemente guerriera, da molta importanza alla tecnica Kasagake. Essa mantiene anche la tecnica di tiro dell'Inu ô mono sebbene non si adoperi più un animale come bersaglio. Il suo simbolo (Takedabishi) è costituito da un diamante, raffigurato da un rombo quadripartito.
Questa scuola ha conosciuto una grande notorietà anche ai giorni nostri, al punto di comparire spesso nei film del regista Akira Kurosawa (I sette samurai del 1954, Kagemusha del 1980). Il famoso attore Toshiro Mifune studiò in questa scuola (Takeda ryu 2002).

Le cerimonie.
Ancora oggi lo Yabusame viene praticato nei principali templi shinto in date fisse.
Si dice che nel tempio Tsurugaoka Hachimangu la prima volta venisse dedicato dallo shogun Yoritomo Minamoto il 15 Agosto 1187 per la grande festa Shinto "Hôjyo e" (Ogasawara ryu 2003).
Ai giorni nostri, la cerimonia Yabusame viene annualmente celebrata qui il 16 Settembre. Solitamente, verso le 13,00 tutto il corteo equestre coinvolto nello Yabusame, debitamente abbigliato secondo il costume samurai dell'era Kamakura, rende omaggio agli dei davanti l'altare principale, bevendo il sake e sottoponendosi alla cerimonia di purificazione.
Alle 14,00 tutto il corteggio dello Yabusame fa il suo ingresso sul tracciato predisposto (baba iri), percorrendolo in entrambi i sensi, in pompa magna, prima di collocarsi nelle rispettive postazioni.

Corteggio dello Yabusame

Corteggio dello Yabusame


Successivamente inizia la successione dei tre tiri in un unica galoppata da parte dei singoli arcieri. Il cavallo dev'essere inizialmente lanciato al galoppo entro la direttrice appositamente allestita e che è lunga 250 metri circa. A distanza regolare sono posti tre bersagli, ad altezza del cavaliere, consistenti in tavolette lignee romboidali di circa 50 cm di lato.

Bersaglio (mato).

Egli ha a disposizione una manciata di secondi per caricare e scoccare in rapida successione tre frecce (una per ogni bersaglio) ... al galoppo.

Arciere nell'atto di scoccare (hanare).

Bersaglio colpito dalla freccia

Non si sottolineerà mai abbastanza la difficoltà nell'effettuare il tiro, mirando al bersaglio, tenendosi esclusivamente sulle staffe di un cavallo al galoppo, segno questo di indubbia maestria nella tecnica di tiro (hôsha), combinata con un controllo assoluto della cavalcatura.
Inoltre, ad ogni freccia, nel momento topico di massimo caricamento dell'arco (kai) fino al rilascio (hanare), l'arciere emette una proiezione energetica sonora (kiai), articolando i suoni in yo, corrispondenti ai cinesi Yin e Yang, ad intendere la successione, rispettivamente, di "tenebre" e "luce".

Arciere che emette il kiai.

Il cavaliere appare così nel momento di massima tensione proiettare tutte le sue energie in questo archetipo cosmogonico (e, potremmo aggiungere, psicogonico). Ciò è confermato dal dato che l'arco nelle scuole Shingon è paragonato alla dea Kannon, trasformazione (anche di genere) giapponese di Avalokitevara, la personificazione dello sguardo compassionevole (letteralmente "verso il basso") del Buddha (Coquet 1986: 184). Ecco dunque che lo Yabusame ripropone un simbolismo operativo analogo a quello di una nascita mistica, in quanto il tiratore proietta tutte le sue energie, condensate nella freccia, verso la luce (yo) per il tramite della dea (Kannon) dello sguardo compassionevole (l'arco) del Buddha (il principio); in altri termini: dopo un periodo di incubazione costituito dal severo allenamento e dalla preparazione psico-fisica che lo yabusame impone, l'arciere può ritualmente proiettare la sua energia verso il Principio, fonte prima ed unica dell'universo (per il Buddismo: la natura vera del Buddha, vedi Leggett 1983: 259).

Una altro rituale solenne, l' Ômato shiki, fu per la prima volta eseguito dai Samurai il 2 gennaio 1189 dietro esplicito ordine dello shogun Yoritomo Minamoto. Da allora, ogni anno questo cerimoniale apre ufficialmente la stagione arcieristica, il 4 gennaio. In esso, dieci tiratori scagliano dieci frecce ciascuno, due alla volta. Il totale delle frecce scagliate (10 x 10 tiratori) ha dato origine al suo nome popolare: Momote-matsuri, cioè "festa delle cento mani" (Herbert 1964: 289; Ogasawara ryu 2003).

Lo stesso shogun Yoritomo Minamoto nel corso di una festa organizzata alle pendici del Monte Fuji nel mese di maggio del 1194, rimase fortemente deluso degli scarsi risultati della battuta di caccia effettuata dai suoi arcieri a cavallo, che decise di istituire un apposito allenamento il cui bersaglio sarebbe stato un pupazzo creato con la pelle di cervo (jishi) ripiena di erba (kusa): nacque così il Kusajishi shiki.

Bibliografia

  1. Coquet, Michel (1986) Le Bouddhisme esoterique japonais. Paris.
  2. Del Bello, Anna Maria (2007), "Il sogno di Odisseo", in: A.M. Del Bello e D. Lanzetta, Mitologia del rito. Da Odisseo ai Lucerci, pp. 1-28. Roma.
  3. Deshimaru, Taisen (1995) Lo zen e le arti marziali (traduzione di F. Guareschi; presentazione di Marc De Smedt; postfazione di Claude Durix). Milano.
  4. Garbini, Riccardo (2007) Il Bushido e le virtù guerriere. Il rei come pietas, http://www.simmetria.org/
  5. Herbert, Jean (1964) Aux sources du Japon. Le Shintô. Paris.
    Leggett, Trevor (1983) Zen e le vie (traduzione a cura della Comunità Neodiana). Bologna.
  6. Mergé, salvatore (1961) Appunti di storia del Giappone. Roma.
  7. Nitobe, Inazo (1980) Bushido (a cura di R. Massi, 2a ed.). Padova.
  8. Ogasawara ryu (2003) kyuubajutsu, http://www.ogasawara-ryu.gr.jp/english/
  9. Storry, Richard (1978) The Way of the Samurai. London.
  10. Takeda ryu (2002) kyuubadou, http://www.yabusame.jp/english/
  11. Takuan, Soho (s.d.) La mente liberate dalle catene. Scritti di un Maestro Zen ad un Maestro di Spada (dattiloscritto).

Testo Riccardo Garbini - Foto Paolo Cassini ©